Dove è andato a finire il risparmio delle famiglie italiane?

Nell’incontro annuale con il mercato finanziario, il Presidente della Consob, Giuseppe Vegas, ha lanciato l’allarme sulla caduta del risparmio da parte delle famiglie italiane:

«Negli ultimi venti anni la propensione al risparmio degli italiani si e’ ridotta di quasi due terzi, passando dal 22 all’8% circa del reddito disponibile. Occorre fare tutto il possibile affinché questo trend sia invertito al più presto».

Il dato è assai preoccupante ma Vegas non fornisce altri elementi nella sua analisi, a parte la solita vuota retorica del “occorre agire al più presto”. In altre parole non c’è né un abbozzo di spiegazione né tanto meno di possibile rimedio.

Proviamo, dunque, (senza la velleità di voler offrire una spiegazione esaustiva del fenomeno) a vedere alcuni dati che mostrano una certa correlazione (correlazione non significa ovviamente causalità) con il dato fornito dalla Consob.

Nota: Vegas nella sua relazione fa riferimento al dato fornito dall’Istat riguardo alla propensione al risparmio delle famiglie consumatrici, mentre io utilizzerò quello del tasso netto di risparmio delle famiglie in Italia fornito dall’OCSE (che analizza il dato su tutte le famiglie e sulle istituzioni senza scopo di lucro al servizio delle famiglie).

Questo il quadro che emerge:

tasso risparmio

In effetti, l’andamento sembra abbastanza coerente con quello descritto da Vegas: dopo un picco del tasso di risparmio netto (ossia la quota di reddito accantonata una volta sostenute le spese per consumi e il pagamento delle tasse) del 26,2% nel 1983 e una permanenza fra il 20% e il 25% nel corso degli anni ottanta, a partire dall’inizio degli anni novanta il trend sembra precipitare, passando dal 20,9% del 1992 al 7,8% del 2000 fino al 4,3% del 2011.

In sostanza i dati dell’OCSE mostrano un andamento persino peggiore rispetto a quello delineato dalla Consob. Entrambi però sembrano concordi sul fatto che il punto di svolta si collochi all’inizio degli anni novanta.

Proviamo a vedere cosa succede in quegli stessi anni alla spesa del settore pubblico.

Nota: per fabbisogno si intende la differenza fra entrate e uscite: se il fabbisogno è positivo significa che le uscite sono superiori alle entrate (deficit pubblico), viceversa se è negativo significa che le entrate sono superiori alle uscite (surplus pubblico).

spesa dopo divorzio

Cosa ci racconta questo grafico:

1) A partire dal divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia del 1981 (da lì in poi la Banca d’Italia non sarebbe più stata obbligata ad acquistare in via residuale i titoli del debito pubblico italiano non venduti in asta ai privati. Un fatto che segna l’inizio della perdita del potere di tenere i tassi d’interesse al livello desiderato da parte del Tesoro, come ci racconta uno dei due autori del divorzio) la spesa per interessi esplode, passando dal 5% del Pil del 1981 agli oltre 10 punti di Pil nel corso degli anni novanta.

2) Il fabbisogno totale (dato dalla spesa totale meno le entrate totali) inizialmente sale per poi calare bruscamente all’inizio degli anni novanta. La linea rimane comunque al di sopra dello zero e ciò significa che complessivamente il governo si trova in una situazione di deficit (le spese complessive sono maggiori delle entrate complessive).

3) Attenzione! Questo è il dato importante: il fabbisogno primario (si tratta della spesa effettuata dallo Stato a cui vanno sottratte le sue entrate e la spesa per interessi) cala inesorabilmente a seguito del divorzio e diventa addirittura negativo proprio all’inizio degli anni novanta. Cosa significa questo in termini pratici: che se per esempio nel 1981 lo Stato pagava ai detentori dei titoli del debito pubblico un 5% di Pil sotto forma di spesa per interessi e alla collettività un altro 5% di Pil  sotto forma di spesa primaria netta (infrastrutture, servizi….); nel 1992 la situazione vedeva uno Stato che pagava per interessi il 12% Pil a beneficio dei detentori dei titoli del debito pubblico e ritirava dalla tasche della collettività nazionale circa il 3% di Pil in termini netti (ossia forniva minori servizi e infrastrutture oltre a maggiori tasse, il tutto a beneficio della rendita finanziaria). Questo trend, come potete ben vedere, prosegue sostanzialmente per tutto il successivo ventennio (quello a cui fa riferimento Vegas appunto).

Qual è la morale? Che il divorzio, oltre ad aver privato il governo dello strumento per il controllo diretto del tasso d’interesse e aver dunque reso più oneroso per lo Stato finanziare la propria spesa, ha rappresentato anche un’enorme rottura istituzionale che ha determinato il trasferimento di ricchezza dalla collettività nazionale a favore dei detentori dei titoli del debito pubblico (i cosiddetti rentiers), che certamente – come testimonia, questo grafico tratto dal documento della Banca d’Italia, La ricchezza delle famiglie italiane (p. 13) – non sono le famiglie italiane.

attività finanziarie famiglie italiane 2011

Dunque, tornando all’inizio, possiamo certamente dire che una certa relazione fra questo evento e il trend discendente del risparmio delle famiglie italiane potrebbe quantomeno esserci.

Infatti, come abbiamo imparato dall’analisi dei saldi settoriali (chi non sa di cosa stiamo parlando legga qui), i deficit pubblici equivalgono a surplus (al netto degli investimenti) per il settore privato (ipotizzando un saldo estero nullo). Ecco l’esempio italiano:

saldi settoriali italiani

Attenzione però, se è vero che il settore pubblico si trova in una situazione complessiva (fabbisogno totale del grafico precedente) di deficit non è detto che questo deficit si traduca in un surplus per l’intera collettività. Il caso italiano è emblematico: il deficit del settore pubblico, a partire dagli anni novanta, ha favorito una certa parte del settore privato a scapito di un’altra. Ha trasferito denaro dalle tasche dei cittadini nel loro complesso a quelle dei (pochi) detentori di titoli del debito pubblico

Questo fatto sembra essere, dunque, quantomeno coerente con il progressivo calo del risparmio delle famiglie.

E suggerisce anche perché l’abbandono dell’Euro, che costringe oggi i governi a finanziarsi sui mercati (ecco qui di chi si tratta), sarebbe positivo per famiglie e aziende, dal momento che il ministero del Tesoro potrebbe riappropriarsi (a patto che lo voglia fare) del potere di fissare i tassi d’interesse sui propri titoli di Stato e orientare quindi la spesa a favore della collettività (servizi, scuole, sanità, infrastrutture…).

Ovvio che si tratta di una condizione necessaria (per riacquisire gli strumenti da parte del Tesoro) ma non sufficiente (ci vuole la volontà poi di volerli usare) per uscire da una situazione ormai degenerata di crisi.

Faccio un esempio per chiarire il concetto, utilizzando proprio Giuseppe Vegas. Abbiamo visto come il presidente della Consob abbia stigmatizzato il fatto che il risparmio delle famiglie sia crollato negli ultimi vent’anni. Bene, si tratta purtroppo dello stesso Giuseppe Vegas che il 14 settembre 2011 scriveva questo sulle colonne del Sole 24ore:

«Il pareggio di bilancio è la stella polare di ogni buon ministro del Tesoro. […] Il bilancio pubblico non è diverso da quello di una qualsiasi famiglia: non si può spendere più di quanto si guadagna».

Come dire: se devi salvare una barca che affonda comincia a farci sopra altri buchi.

Daniele Della Bona

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7 risposte a Dove è andato a finire il risparmio delle famiglie italiane?

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  2. Massimo Mancini ha detto:

    Fantastico Daniele, sempre molto preciso e con fonti certissime.
    Bravo!

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