Ecco come la perdita di sovranità monetaria ha distrutto i risparmi delle famiglie italiane

Ne avevo già parlato qui ma vorrei ritornare sull’argomento aggiungendo e approfondendo alcune questioni.

L’idea che la Modern Money Theory e in generale i modelli di analisi economica basati sui saldi settoriali sottolineano è abbastanza semplice e intuitiva: il debito del settore pubblico (passività finanziarie) equivale sempre al credito (attività finanziarie) del settore privato (Nota tecnica: il credito può essere del settore privato nazionale o del settore privato e pubblico estero. Un esempio: un titolo di stato italiano può essere detenuto da una famiglia o una banca italiana, da una famiglia o una banca estera o da una banca centrale estera). Si tratta in fondo di un mero dato contabile: i soldi che escono dalle tasche dello Stato (via spesa) finiscono in quelle del settore privato (il reddito di un insegnante o un titolo di stato che frutta un certo interesse).

Il problema di cui eravamo partiti era stato il crollo del tasso di risparmio delle famiglie italiane nell’ultimo ventennio:

tasso risparmio

Lo vedete bene dal grafico: a partire dall’inizio degli anni novanta il tasso di risparmio delle famiglie, già in declino dalla metà degli anni ottanta, crolla letteralmente.

Vediamo adesso cosa succede nello stesso momento ai saldi del settore pubblico. Perché uso il termine saldi, al plurale, e non saldo? Perché ovviamente non tutte le uscite dello Stato, le sue spese, sono uguali. Ogni governo, infatti, spende:

1) Per il pagamento di interessi (quella che viene chiamata spesa per interessi) sui titoli di stato che emette. Esempio: il governo emette un’obbligazione che viene acquistata da una banca. Periodicamente la banca che detiene il titolo di stato riceve il pagamento di una quota di interessi. Come potete intuire si tratta di una voce di spesa che favorisce i detentori dei titoli del debito pubblico, in gran parte istituzioni finanziarie nazionali ed estere, e in generale i cosiddetti rentiers, coloro che beneficiano di una rendita (qui trovate i dati sui settori detentori del debito lordo italiano: potete notare che, a febbraio 2013 per esempio, le istituzioni finanziarie e monetarie nazionali (banche centrali, banche commerciali, banche di risparmio, uffici postali con funzioni bancarie e cooperative del credito) detenevano complessivamente circa 50% del debito pubblico, Banca d’Italia il 10%, i soggetti non residenti – il resto del mondo – un altro 30% e i residenti – famiglie e aziende –  il rimanente 10%).

2) Per la spesa primaria, ossia la spesa indirizzata al pagamento di servizi, stipendi, investimenti… In questa caso, è chiaro che si tratta di un tipo di spesa che genera reddito per il settore privato di famiglie e aziende e che comunque apporta un beneficio all’intera collettività.

La spesa totale è costituita dalla somma della spesa per interessi e per la spesa primaria. Se a questa cifra si sottraggono le entrate totali abbiamo il saldo complessivo del settore pubblico (quello che nella figura sotto, tratta dall’ultima relazione annuale della Banca d’Italia, p. 147, viene definito come “indebitamento netto“. Attenzione: se l’indebitamento netto è positivo significa che le uscite sono maggiori delle entrate, cioè, detto in linguaggio semplice, i soldi derivanti dalla tasse sono minori della spesa da parte del governo).

Immagine

Se alla spesa primaria (esclusa quindi la spesa per interessi) si sottraggono le entrate complessive avremo invece la voce “avanzo primario“. In questo caso vale il discorso opposto rispetto a prima, se positivo significa che le entrate (tasse) sono maggiori delle uscite (in questo caso spesa primaria).

Facciamo un esempio prendendo come riferimento l’anno 2004: le spese totali (spesa primaria + spesa per interessi) ammontano a 47,8 punti di Pil; il totale delle entrate è 44,3 punti di Pil, dunque il saldo complessivo, ossia l’indebitamento netto è 3,5 punti di Pil. Significa, quindi che complessivamente la spesa eccede le entrate di 3,5 punti di Pil. Ma, se guardiamo invece al saldo primario (la voce “avanzo primario”) osserviamo che la spesa primaria (spesa totale – spesa per interessi) è uguale a 47,8 – 4,7 = 43,1 e che il saldo primario (spesa primaria – entrate totali) equivale a 43,1 – 44,3 = -1,2. Ricordate, però, che per convenzione il numero viene scritto con segno opposto, dunque se positivo significa che le entrate totali sono maggiori della spesa primaria, come in effetti è nel nostro esempio.

A questo punto possiamo mettere insieme i pezzi e i dati degli ultimi 50 anni e avere un  quadro d’insieme significativo su come lo Stato ha indirizzato la sua spesa:

spesa dopo divorzioRicordate sempre che quando la linea si trova sopra lo zero significa che le spese superano le entrate. Cosa vediamo dunque?

1) A partire dal divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia del 1981 (da lì in poi la Banca d’Italia non sarebbe più stata obbligata ad acquistare in via residuale i titoli del debito pubblico italiano non venduti in asta ai privati. Un fatto che segna l’inizio della perdita del potere di tenere i tassi d’interesse al livello desiderato da parte del Tesoro, come ci racconta uno dei due autori del divorzio) la spesa per interessi esplode, passando dal 5% del Pil del 1981 agli oltre 10 punti di Pil nel corso degli anni novanta.

2) Il fabbisogno totale (dato dalla spesa totale meno le entrate totali, quello che viene definito sopra come “indebitamento netto”) inizialmente sale per poi calare bruscamente all’inizio degli anni novanta. La linea rimane comunque al di sopra dello zero e ciò significa che complessivamente il governo si trova in una situazione di deficit (le spese complessive sono maggiori delle entrate complessive).

3) Attenzione! Questo è il dato importante: il fabbisogno primario (la voce “avanzo primario” vista prima, ossia spesa primaria, ossia spesa al netto degli interessi, meno entrate totali) cala inesorabilmente a seguito del divorzio e diventa addirittura negativo proprio all’inizio degli anni novanta. Cosa significa questo in termini pratici: che se per esempio nel 1981 lo Stato pagava ai detentori dei titoli del debito pubblico un 5% di Pil sotto forma di spesa per interessi e alla collettività un altro 5% di Pil  sotto forma di spesa primaria netta (infrastrutture, servizi….); nel 1992 la situazione vedeva uno Stato che pagava per interessi il 12% Pil a beneficio dei detentori dei titoli del debito pubblico e ritirava dalla tasche della collettività nazionale circa il 3% di Pil in termini netti (ossia forniva minori servizi e infrastrutture oltre a maggiori tasse, il tutto a beneficio della rendita finanziaria). Questo trend, come potete ben vedere, prosegue sostanzialmente per tutto il successivo ventennio (quello a cui fa riferimento Vegas appunto).

Qual è la morale? Che il divorzio, oltre ad aver privato il governo dello strumento per il controllo diretto del tasso d’interesse e aver dunque reso più oneroso per lo Stato finanziare la propria spesa, ha rappresentato anche un’enorme rottura istituzionale che ha determinato il trasferimento di ricchezza dalla collettività nazionale a favore dei detentori dei titoli del debito pubblico, che certamente – come testimonia, questo grafico tratto dal documento della Banca d’Italia, La ricchezza delle famiglie italiane (p. 13) e come abbiamo detto all’inizio – non sono le famiglie italiane.

Arrivati a questo punto non dovrebbe stupire di vedere che proprio nel momento in cui la voce fabbisogno primario diventa negativa (i soldi tolti in tasse sono maggiori della spesa primaria dello Stato) anche il risparmio delle famiglie crolla letteralmente. Ecco un’immagine che vale più di mille parole:

Tasso di risparmio e avanzo primario 2

Questo serve peraltro a rispondere anche a quei fessi che continuano a dire che “siccome noi abbiamo un debito pubblico alto allora dovremmo essere tutti ricchi”. Il debito pubblico non è tutto uguale, perché non è tutta uguale la spesa da parte dello Stato. E il caso italiano è emblematico: il deficit del settore pubblico, a partire dagli anni novanta, ha favorito una certa parte del settore privato a scapito di un’altra. Ha trasferito denaro dalle tasche dei cittadini nel loro complesso a quelle dei (pochi) detentori di titoli del debito pubblico.

Ecco perché l’abbandono dell’Euro, che costringe oggi i governi a finanziarsi sui mercati (ecco qui di chi si tratta), alle condizioni da strozzinaggio degli stessi mercati, sarebbe positivo per famiglie e aziende, dal momento che il ministero del Tesoro potrebbe riappropriarsi (a patto che lo voglia fare) del potere di fissare i tassi d’interesse sui propri titoli di Stato (se osservate il penultimo grafico noterete che per tutti gli anni sessanta la spesa per interessi era bassissima e pressoché costante) e orientare quindi la spesa a favore della collettività (servizi, scuole, sanità, infrastrutture…).

Ovvio che si tratta di una condizione necessaria (per riacquisire gli strumenti da parte del Tesoro) ma non sufficiente (ci vuole la volontà  e la consapevolezza poi di volerli usare) per uscire da una situazione ormai disperata di crisi.

Daniele Della Bona

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2 risposte a Ecco come la perdita di sovranità monetaria ha distrutto i risparmi delle famiglie italiane

  1. Francesco CH ha detto:

    IMPORTANTE – Ciao, vi segnalo questo video qui:

  2. Pingback: Ecco come la perdita di sovranità monetaria ha distrutto i risparmi delle famiglie italiane - MMT

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